Nella azione evangelizzatrice c’è una espressione che ripetiamo spesso e che riguarda la necessità di annunciare. Citando san Paolo si dice: come potranno credere se non c’è chi annuncia? (Rom 10,14). Troppo spesso, però questa espressione viene intesa solo nel versante della comunicazione del messaggio e troppo poco nel versante della comunicazione cioè del modo di trasmettere. In questa prospettiva diventa sempre più importante riflettere sul fatto che per una comunicazione autentica ci deve essere la possibilità di comprensione tra le persone. Vediamo ogni giorno infatti quanto sia difficile entrare in relazione se non si possiede una lingua in comune e se le persone non hanno riferimenti di valore condivisi. Questo è il tema del linguaggio o della significatività dell’annuncio.
Diventa sempre più importante riflettere sul fatto che per una comunicazione autentica ci deve essere la possibilità di comprensione tra le persone. Questo è il tema del linguaggio o della significatività dell’annuncio.
Un tema importante. La chiesa, dopo Gesù, ha sempre riconosciuto che l’annuncio avviene dentro una base comune. Per questo si è preoccupata, ad esempio, di tradurre sia la Bibbia che la Liturgia in modo che venisse utilizzata la lingua dei diversi popoli. La lingua però veicolava sempre anche l’interpretazione della vita che essi avevano. Questo processo non è stato sempre facile. Con lo sviluppo del mondo moderno sembra che le difficoltà siano aumentate tanto che si è sviluppato anche un senso di rifiuto. Per questo proprio nella Celebrazione di Inaugurazione del Vaticano II (1962, n. 6), Papa Giovanni descrivendo il compito del concilio disse “altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate”. E nella grande esortazione apostolica “Evangelii Nuntiandi” (1975, n. 63) Paolo VI scrive “Le Chiese particolari … hanno il compito di assimilare l’essenziale del messaggio evangelico, di trasfonderlo, senza la minima alterazione della sua verità fondamentale, nel linguaggio compreso da questi uomini e quindi di annunziarlo nel medesimo linguaggio”. Sulla stessa linea si è espresso Papa Francesco che in “Evangelii Gaudium” scrive (2013, n. 41): “Allo stesso tempo, gli enormi e rapidi cambiamenti culturali richiedono che prestiamo una costante attenzione per cercare di esprimere le verità di sempre in un linguaggio che consenta di riconoscere la sua permanente novità”. La novità adatta perchè siano percepite come importanti.
Alcune indicazioni. Cosa può significare tutto questo per gli evangelizzatori e gli operatori pastorali? Cosa chiede loro? Si possono dare alcune indicazioni? In primo luogo credo che significhi che ogni comunicazione della fede si debba organizzare tenendo presente il principio “a partire dalla persona”. Questo significa che il destinatario, le sue domande e bisogni, la sua storia e realtà, ci aiutano a organizzare la comunicazione. Significa inoltre che la comunicazione è un cammino che facciamo insieme perché anche “l’altro” è animato dallo Spirito di Dio che lo abilita a capire il significato della tradizione ecclesiale.
In secondo luogo ci chiede di organizzare la comunicazione secondo “i temi generatori della cultura”. Ci rendiamo conto che le domande (e a volte anche le risposte) che l’umanità fa a Dio e alla rivelazione, sono differenti rispetto al passato. Possiamo mettere come “centro comunicativo” alcune domande di oggi: la realizzazione dell’amore, la autenticità della vita, la richiesta di giustizia, lo sviluppo della compassione verso gli emarginati, la guarigione e realizzazione della persona, lo sviluppo delle energie spirituali, il dialogo di pace tra i popoli. Papa Francesco ha suggerito una parola-tema generatore per ridire il Vangelo: la misericordia. Come non essere in accordo?
In terzo luogo comunicare in modo significativo ci chiede di riconsiderare “i linguaggi della fede”. La fede (annunciata, vissuta e spiegata) ha sviluppato diversi linguaggi: la scrittura, il racconto, la liturgia, la morale, la spiritualità, l’anno liturgico, la disciplina, la teologia… La pastorale vive di questi linguaggi. Essi saranno missionari se progressivamente ripensati secondo i bisogni e i temi generatori della cultura. Certamente l’azione più importante sarà mettere al centro il linguaggio biblico, la freschezza del Vangelo, perché rigeneri tutti i linguaggi ecclesiali. Questa operazione voluta dal Vaticano II non è ancora conclusa. Spesso preferiamo ancora basare l’annuncio e la catechesi su interpretazioni successive. Autentiche interpretazioni ma, appunto, interpretazioni che rispondevano a contesti differenti. La significatività dei linguaggi ecclesiali va curata di più. A volte bisognerà spiegare i diversi simboli o affermazioni che essi usano. A volte, molto di più, vanno introdotte con creatività nuove espressioni. Un esempio eccellente è stato il lavoro compiuto con la riforma liturgica. Ciascuno può vedere che le Collette (le antiche e le nuove) esprimono il mistero di Cristo e del suo Vangelo in modi differenti e complementari proprio perché scritte rispondendo ai bisogni pastorali dei diversi tempi. È un esempio di “creatività” cioè significatività esemplare.
Infine, in quarto luogo, comunicare in modo significativo ci chiede di entrare nel mondo dei “linguaggi della cultura”. Mi riferisco ai nuovi strumenti di comunicazione interpersonale e di massa (mass-media e new media). Questi permettono un aumento della trasmissione ma anche una “democratizzazione” della ricerca della verità. Molto spesso il contenuto della comunicazione si concentra sulla dimensione personale ed affettivo-emotiva. Certamente questo modello comunicativo contiene alcuni limiti, ma permette al Vangelo di arrivare al cuore della persona e di affascinarla. La comunicazione narrativa e biografica aiuta molto il contatto comunicativo tra messaggio evangelico e persona. Questo perché non si concentra sulla verità del concetto ma sul racconto delle promesse e delle realizzazioni di vita autentica che la verità della Parola di Gesù ha creato nell’evangelizzatore e nelle persone. Si dice infatti che è una comunicazione che inserisce ciascuno nella storia della salvezza.
Abbiamo quindi, in conclusione, un compito da continuare a realizzare. La comunicazione missionaria ci chiede di essere significativi e questo possiamo comprenderlo in tre vie. Sarà una comunicazione che ritorna a comprendere il messaggio originario separandolo dalle successive interpretazioni; che lo confronti continuamente con le domande, i desideri e alcune risposte della cultura in cui viviamo; che venga collocato dentro i canali comunicativi oggi più significativi: la persona e la sua biografia spirituale.
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