La responsabilità dell'annuncio. 4. Il rinnovamento delle pratiche comunicative

La comunicazione via della evangelizzazione

Nel tempo del rapporto tra annuncio e libertà che caratterizza la comunicazione della fede il modello tradizionale centrato sulla trasmissione è insufficiente. Il trasmettere infatti è una azione che non prende in considerazione la responsabilità dell’altro. È centrata sul compito dell’autorità che “invia” un messaggio certa che viene ritenuto autorevole, significativo, interessante. Pensa, cioè, l’altro solo come ricettore passivo. Chi trasmette si sente sicuro che l’altro debba accogliere il messaggio per principio. Per questo la missione sempre più amplia la sua pratica passando dal trasmettere (cioè “mettere in onda”) al comunicare.

La missione non può non modellarsi sullo sviluppo (“cultura”) che il processo comunicativo ha subito nel XX secolo. Riconosciamo tre elementi di questo mutamento culturale. In primo luogo è la comunicazione caratterizzata dal principio di attrazione psicologica, più che dal principio di testimonianza alla verità. Questo non significa che non esista una verità. Significa che nel processo di selezione delle informazioni, il principio autoritativo della verità non è più dato per sicuro. La decisione di ascoltare non è più centrata sul fatto veritativo ma da quanto la comunicazione stessa “attiva interesse”, risponde a interesse o – più semplicemente – attiva emozione nella persona. P. Babin già da diversi anni parla di inizio comunicativo come fibrillazione[1]. In caso contrario quasi sempre avviene la chiusura comunicativa (“si cambia canale”!) o, in campo ecclesiale, avviene l’ascolto formale senza interiorizzazione o comunicazione profonda.

La comunicazione è segnata da un secondo fattore. Essa avviene sempre dentro una pluralità di linguaggi. Oggi questa situazione si è sviluppata a partire dalla mass-multi medialità dei canali-codici[2]. La comunicazione del passato utilizzava parole, immagini e suoni. Oggi questo uso avviene simultaneamente e con potenzialità grandi. La multimedialità accentua l’aspetto emotivo-emozionale della comunicazione. Inoltre condiziona la presentazione del messaggio alle regole formali dei diversi codici-canali e non solo alla sua logica interna. In modo particolare trasforma la comunicazione da azione che descrive un concetto alla narrazione di una storia. I messaggi sono sempre più “nascosti” dentro racconti di vita: atteggiamenti, progetti, desideri, situazioni, reazioni ed emozioni. L’accento è spostato dalla definizione alla esperienzalità. Si è quindi passato dal vero in sé, al vero in un contesto.

Infine la cultura comunicativa è stata modificata radicalmente dalla possibilità di intervenire nella costruzione della trama comunicativa (interattività). I new media (personal computer, web2, messaggistica su telefonini) non solo favoriscono il ruolo dell’emittente, ma soprattutto del ricevente che diventa a pieno titolo un soggetto-emittente stesso. In questo modo il messaggio è sempre più “costruito insieme”[3]. È frutto degli apporti di tutti (democraticità della comunicazione) e legato alla quantità degli apporti stessi. Esempio più importante è l’introduzione del “mi piace” in quasi tutti i social network.

Ciononostante il futuro della missione non è nella tecnologia comunicativa[4]. Comunicare – infatti – significa riconoscere l’altro come soggetto di costruzione di significato. Significa riconoscere che l’accoglienza del messaggio è legata non solo al principio di autorità o di verità ma anche alla struttura della persona: il suo campo motivazionale e la sua struttura di apprendimento.

In questo contesto la missione è chiamata a due scelte. La prima sarà quella di inserirsi in queste nuove reti comunicative che diventano sempre più luoghi o contesti (“nuovi areopaghi”).

Tuttavia per l’annuncio rimane centrale la relazione tra le persone. Troppa missione confida eccessivamente sulla digitalità della comunicazione. Come già in passato la “rincorsa” ad imitare le logiche e gli strumenti della cultura del momento mette la missione in una posizione evidentemente perdente fin dal principio. Infatti essa non può adeguarsi (o almeno lo speriamo!) alle logiche di profitto e di strumentalizzazione che la cultura comunicativa attuale porta dentro di sé. È una cultura centrata sul bisogno di riconoscimento e di affermazione della singola persona e delle agenzie sociali. Non quindi una conversione al progetto di Dio, ma il suo utilizzo.

La missione farà bene ad utilizzare i media ma rimanendo fedele al primato della comunicazione come relazione fisica tra persone. Cioè una comunicazione sulla/della vita personale (salvezza). Prendiamo come “inculturazione buona” il bisogno di entrare in relazione profonda delle persone costruendo pratiche relazionali di fiducia e di accoglienza. Una missione che inizia dall’ascolto sincero della narrazione delle persone, centrata sulla considerazione positiva e sul riconoscimento indiscusso del valore dell’altro. Più ancora: comunicazione costruita sull’aiuto reciproco a scoprire nel racconto della vita, la narrazione (scrittura) di Dio.

I verbi della comunicazione missionaria

Queste riflessioni globali ci permettono di individuare meglio il rinnovamento complessivo della pratica comunicativa missionaria[5]. Molte di queste azioni vengono dal passato e appartengono alla tradizione pastorale, altre sono nuove, tutte sono rinnovate a partire dall’incontro tra tradizione e innovazione; tra passato e modernità. Approfondire la griglia dei verbi potrebbe definire meglio la lista delle azioni missionarie. Sarà molto utile osservare le pratiche missionarie con le scienze umane. Questa è una delle conseguenze di quello scambio tra fede e cultura descritto e auspicato dalla GS (n.44). La NE non si deve privare di rileggere i propri compiti e le proprie finalità attraverso i risultati delle Scienze Umane. La NE, l’azione missionaria, può essere aiutata quindi da alcune riletture: la comunicazione umana, l’accompagnamento e il sostegno alla persona, lo stile della condivisione dinamica dei gruppi umani, la prospettiva formativa di insegnamento e apprendimento. In questo senso, dicevamo all’inizio di questa riflessione, utilizziamo il termine pratiche di NE

Trasmettere (spiegare, difendere, insegnare). Sono verbi-azioni che mettono in evidenza il servizio da rendere al messaggio. È il momento della traditio. Secondo l’espressione di autori e documenti occorre essere “fedeli alla parola di Dio”. Questa formula rimanda a tematiche complesse sulla natura della rivelazione, la comprensione delle sue finalità e allo studio delle sue forme. In ogni caso la tradizione è aiutata dai processi ermeneutici. Nella prospettiva pastorale anche il compito della trasmissione si arricchisce se ripensata a partire dall’analisi comunicativa descritta precedentemente. Meglio se si approfondisse la tradizione come tradere ovvero come processo in cui è coinvolto anche il destinatario. Le prospettive aperta da LG 12 e DV 8 sarebbero più che sufficienti. La tradizione è aiutata dal contesto comunitario dell’apprendimento. Lo sharing comunicativo (le “risonanze”) aiuta molto questo compito.

Informare (broadcasting, mass-mediare, pubblicizzare). Sul versante della comunicazione mediale sarà importante ripensare anche a livello locale quale medializzazione è utile alla missione. In passato si sono utilizzati prevalentemente narrazioni emotive. Nell’utilizzo delle “storie di vita” sembra importante sottolineare non la eroicità o particolarità della storia perché provoca distanza con l’ascoltatore; quanto la possibilità di coinvolgimento reale nella condivisione dei carismi. La narrazione deve descrivere quanto ciascuno può fare e dare indicazioni praticabili. Un esempio da non seguire è la pubblicità “laica” delle diverse agenzie di volontariato. Esse sono centrate sul messaggio “dammi una offerta, che la gestisco io”. Peccato che anche le diverse campagne dell’ 8xmille vadano in questa direzione.

Studiando racconti e video di attività missionarie, inoltre, non risulta chiaro il ruolo che le comunità hanno nella realizzazione dell’azione missionaria. Il rapporto è troppo spesso one-down. I livelli o scopi dell’azione, inoltre, risultano separati o giustapposti. La missione viene descritta come solidarietà e testimonianza e annuncio e celebrazione. Troppo spesso sono mostrate come azioni separate. Mancando la narrazione del tema culturale che le ha generate, essere risultano essere azioni che si possono liberamente scegliere.

Il contesto plurale, inoltre, chiede non solo di tramettere o annunciare la fede ma di pubblicizzarla catturando il consenso dei potenziali acquirenti. Pubblicizzare è una azione complessa. Il prodotto è acquistato per la forza di convincimento della presentazione. Deve rispondere ad un bisogno della persona, deve essere sponsorizzato da testimonials convincenti, deve rappresentare un vantaggio sociale per chi acquista. La pubblicità non deriva e non porta alla verità del prodotto. La pubblicità si occupa di catturare la attenzione della persona.

Comunicare (dialogare, entrare in relazione, condividere, partecipare). La comunicazione nella fede è comunicazione interpersonale che riconosce nel “ricevente” lo Spirito di Dio in azione.

NE significa spesso ricostruire una comunicazione venuta meno. La pragmatica comunicativa ha sottolineato la complementarietà e la differenza dei ruoli comunicativi. Perché ci sia trasmissione di messaggio, infatti, occorre che ci siano due attori: l’emittente e il ricevente. E questo in uno scambio di ruoli continuo. Questo è possibile se ci si scambia, parallelamente, reciproca fiducia e compromissione. La comunicazione autentica implica, infatti, una apertura di sè alla realtà dell’altro.

Sempre più si afferma l’importanza del piccolo gruppo come luogo formativo e immagine di chiesa, luogo di comunicazione e identificazione per il personale progetto di vita, e non solo come strumento momentaneo. Tuttavia il gruppo o piccola comunità non è di facile gestione; si esprime secondo le leggi della dinamica psicosociale della appartenenza. Per questo è necessario conoscerne le strutture e i dinamismi interni.

Formare (testimoniare, narrare, accompagnare, sostenere, guarire). Occorre riflettere e tenere in grande conto la descrizione del processo interno alla persona, quello che porta alla sua decisione. Possiamo chiamare questo processo: interiorizzazione o integrazione del messaggio nella struttura di personalità. O processo di acculturazione. Occorre superare l’idea di catecumeno come vaso vuoto, di spiritualismo o di autorità. I passaggi intrapsichici sono anche i passaggi pedagogici che permettono alla libertà di essere aiutata nel suo cammino di decisione. Occorre sostenere le competenze di: conoscersi, guarire le proprie ferite, riqualificare le rappresentazioni religiose, gestire il cambio di vita e la integrazione del vangelo nei vissuti.

Per molti secoli e ancora oggi la presentazione della fede ha seguito la via dell’insegnamento. La pedagogia ha sentito la necessità di integrare il processo pedagogico dell’insegnamento con quello dell’apprendimento. Questa espressione sottolinea il ruolo attivo della persona nella trasformazione di se stessa. Mette in evidenza le altre dimensioni del comprendere: desiderare e sperimentare. L’apprendimento o assimilazione di un messaggio avviene come sperimentazione e ricerca della soluzione o comprensione della verità del messaggio. La didattica dell’apprendimento ha elaborato una serie di indicazioni utili anche per la pastorale.

Tutto questo sta portando ogni comunicazione di successo a scegliere la via della narrazione. La narrazione trasforma ogni verità in storia ovvero racconto biografico, in pluralità di esperienze che ad essa si ispirano, ma anche la interpretano e la modificano. Racconti e storie di vita cristiana saranno la via della comunicazione della fede. Narrare ha per contenuto una storia concerta; raccontare indica che la storia è stata vissuta riespressa in modo personale dal narratore. Solo in secondo tempo interviene la comunicazione della dottrina. Su questa strada si sono poste già molte chiese locali.



[1] Babin P., La catechesi nell’era della comunicazione, Elledici, Torino 1989.

[2] Tra i molti testi: Eilers F.J., Comunicare nella comunità. Introduzione alla comunicazione sociale , Elledici, Torino 1997.

[3] Su questa problematica Spadaro A., Cyberteologia. Pensare il cristianesimo al tempo della rete, Vita & Pensiero, Milano 2012; e come introduzione alle pratiche new-mediali Ruggeri G., Nuovi media. Diocesi e parrocchia, istruzioni per l’uso, Tau, Todi 2010.

[4] Meddi L., La comunicazione è il futuro della catechesi?, in Biancardi G.(a cura di)-Associazione Italiana Catecheti, Pluralità di Linguaggi e cammino di fede , Elledici, Torino 2008, 183-212.

[5] Meddi L., Compiti e Pratiche di Nuova Evangelizzazione, in Dotolo C.-Meddi L , cit., 100-110.

4 continua
Meddi L., La responsabilità dell’annuncio. Pratiche di Evangelizzazione, in Aa.Vv., Ho creduto, perciò ho parlato. Contributi della 10a Settimana Nazionale di Formazione e Spiritualità Missionaria. Loreto 26-31 agosto 2012, Missio, Roma 2013, 69-90.

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