Perchè dopo la celebrazione della Pentecoste l’anno liturgico non propone subito di ricominciare l’avvento, l’attesa della nascita di Cristo? Cosa può aggiungere di più questo lungo periodo alla celebrazione dei due grandi misteri cristologici della incarnazione e della redenzione? Perchè nonostante l’abbondante lettura dei sinottici la comunità non “conosce” il senso della vita di Gesù? Come trovare motivazioni che sappiano frenare l’emorragia domenicale nel tempo delle vacanze? Serpeggia, con un senso di pudore, la sensazione che il tempo per annum sia in realtà il tempo liturgico “tra gli eventi”, un intermezzo, un “non tempo”. O un tempo non facilmente gestibile. Quale può essere la densità propria del tempo per annum?
Un problema di ermeneutica liturgico-pastorale.
Già la tradizione tridentina aveva un problema con il senso da attribuire a questo periodo liturgico. Ne è prova il fatto che appena possibile la domenica (festa del Signore!) veniva sostituita con le feste dei santi. Proprio per questo nell’immaginario collettivo questo tempo si identifica con le feste patronali, le feste mariane, con il tempo per i matrimoni e i sacramenti, le feste per il raccolto, etc.
Un altro segnale di incertezza è la collocazione di alcune solennità “teologiche” proprio in questo periodo che hanno tutto un sapore di “ripetizione”. Abbiamo appena concluso la Celebrazione Pasquale (che attraverso la Quaresima si collega immediatamente con il Natale) con la liturgia della Pentecoste; abbiamo appena concluso il grande racconto della storia della salvezza che, ecco, di nuovo, festeggiamo la Trinità, il Corpo e Sangue del Signore e successivamente l’Assunzione di Maria.
La percezione è che se potessimo, metteremmo ancora altre festività per riempire un tempo che facciamo fatica a comprendere nel suo significato profondo. Si potrebbe sospettare che la comunità cristiana non sappia bene cosa è chiamata a “celebrare” in questo periodo. Tale incertezza pastorale si manifesta soprattutto nel momento dell’omelia. Forse mette in evidenza che nelle nostre comunità e nella realtà vissuta dei credenti esiste una nettaseparazione tra il dogma e la narrazione. La identità dei Tempi Forti è chiara. Dato un tema teologico, un aspetto del dogma e della esperienza cristiana, si cerca un brano evangelico e altre letture che lo illuminano. La comunità lo celebra, lo interiorizza, lo annuncia. Il presidente della celebrazione lo spiega, lo attualizza per la comunità, ne corregge le interpretazioni.
Ma con la lettura semicontinua dei Vangeli sinottici, che abbiamo a che fare? Sembra che la narrazione evangelica non ispiri la “celebrazione”. Non spiega un qualche aspetto del mistero della “seconda parte della messa”. Ci spinge inevitabilmente verso il moralismo. La tentazione di parlare di altro, nella omelia, è sempre forte!
da: Meddi L., Il “tempo base” dei “tempi forti”, © Settimana 44 (2009) 24, 1.16.
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