Chiesa Italiana: povertà, alterità e belleza

Porre la questione di nuovi criteri o vie per l’annuncio del Vangelo in Italia significa inevitabilmente prendere posizione sulle scelte pastorali perseguite in questi anni e che compongono la “via italiana” alla receptio del Concilio.[1] In questa nostra ricerca ci riferiamo ai testi che riteniamo più espressivi della riflessione del magistero italiano[2]

Si individuano facilmente le tappe di tale cammino.[3] L’inizio è segnato da una vigorosa analisi della situazione della fede in Italia fatta con il documento “Vivere la fede oggi” (1971) con il quale si chiedeva alla cristianità italiana di riflettere sui livelli e le ragioni della sua crisi profonda. Si pensò di porre rimedio con il piano pastorale “Evangelizzazione e sacramenti” (1973) coniugato, con una certa resistenza, ai termini di “promozione umana” (con il convegno di Roma, 1976) e al tema della ministerialità. Queste scelte erano già state annunciate con la pubblicazione del “Documento Base per il Rinnovamento della Catechesi” (1970).

Negli anni ’80 prese avvio il piano pastorale “Comunione e comunità” centrato sul tema della necessità della comunione tra le diverse espressioni e manifestazioni della chiesa italiana. In tale prospettiva si sottolineò anche il tema dei “criteri” di ecclesialità dei movimenti e delle associazioni. Tuttavia la realizzazione del piano prese la strada della formulazione liturgico-sacramentale e non quello di una riflessione seria sui contenuti e le condizioni per una autentica comunione e comunicazione intraecclesiale. Molti osservatori sottolinearono, infatti, la mancanza di collegamento tra il tema teologico della comunione e la dimensione antropologica della comunicazione senza la quale la comunità rischia di non edificarsi in modo adeguato. Nel convegno di Loreto (1985) si tentò di coniugare la dimensione trinitaria della comunione accolta dalla comunità cristiana con il tema liturgico ma anche sociale della riconciliazione. Tema che aveva le sue radici immediate nella riflessione sulla “chiesa italiana e le prospettive del paese” (1981) e ancora più lontane nella riflessione e contributo dei vescovi italiani ai Sinodi sulla Giustizia e sulla Evangelizzazione.

Gli anni ’90 furono segnati dal tema della carità. Questo terzo movimento aveva nel suo interno due tratti caratteristici. Da una parte invitava le comunità a fare della carità il primo contenuto o via della evangelizzazione; dall’altra si volle insistere che la prima carità da portare al mondo è la verità dell’annuncio cristiano. E questo soprattutto in riferimento alla situazione di pluralismo culturale in cui vivono le nuove generazioni. Nella seconda parte del decennio prese piede la proposta del Progetto Culturale e l’Assemblea di Palermo diede nuovo impulso ai percorsi di formazione anche di primo annuncio o prima evangelizzazione.

L’analisi delle (poche) riflessioni sulla criteriologia pastorale adottata mette in luce la non linearità del cammino proposto dalla Conferenza Episcopale. Esistono due criteriologie nel post-concilio italiano.[4] In effetti sembrano esserci due principi guida. Ambedue utilizzano la metodologia pastorale del vedere-giudicare-agire proposta dalla Gaudium et Spes[5] ma con esiti molto diversificati. Negli anni 1970-1985 tale analisi portava alla “via maestra” del superamento del cristianesimo come religione sociale centrata sull’aspetto sacramentale e popolare come si era configurata nel periodo post-tridentino. L’obiettivo era realizzare una pastorale della “via media”[6] che attraverso l’evangelizzazione facesse rinnovare l’esperienza religiosa della cristianità italiana. In questo momento “evangelizzazione” significa soprattutto purificazione e critica di alcuni aspetti della vita intraecclesiale.

Successivamente la stessa analisi, espressa dai documenti successivi con formulazioni ancora più incisive, porta ad una indicazione di vie notevolmente diverse. La “via maestra” non sarà più la purificazione della prassi religiosa delle comunità ma, al contrario, il sostegno ad essa e il suo mantenimento. La strategia principale prevederà anche un non convincente primato della “questione veritativa” nell’azione missionaria. In alcune occasioni si arriva a pensare che l’obiettivo delle indicazioni recenti dell’episcopato sia il recupero di una vera e propria religione civile.[7]

È passato un tempo sufficiente per poter valutare le due proposte pastorali? La questione della valutazione non è fuori luogo anche perché coloro che difendono una o l’altra delle posizioni si rifanno esattamente a questo criterio: il successo pastorale. Al di là delle discussioni che si potrebbero e dovrebbero fare (in verità non esiste un luogo pubblico nella chiesa dove dibattere di queste questioni!) il punto che qui interessa segnalare è: con quale criterio? Proprio la vicenda italiana mette in luce la precarietà del metodo pastorale del vedere-giudicare-agire perché esso rimane uno strumento nelle mani di chi dirige al momento la chiesa. È cioè uno stramento legato alle precomprensioni teologiche. Come spesso viene sottolineato, è il momento del “giudicare” che non è sufficientemente sviluppato e questo pregiudica anche il momento del “vedere”. Da parte nostra, anche in riferimento a questa situazione italiana, preferiamo risolvere i problema della criteriologia pastorale nella relazione teologico-pastorale tra prassi messianica e teologia dei segni dei tempi.

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