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Inculturazione e catechesi
Inculturazione e catechesi. La catechesi inculturata via della personalità cristiana. Intervento di Luciano Meddi al seminario «Vangelo e cultura. Un incontro sempre nuovo» Roma, Sala Newman, Pontificia Università Urbaniana 20 gennaio 2016, ore 17.00.
Quando si annuncia la fede o la si aiuta nella sua maturazione, la comunità e l’individuo hanno già una precomprensione salvifica (=cultura) in cui vivono spontaneamente (socializzazione primaria e secondaria) e che li aiuta nella loro costruzione della vita.
Nel nostro contesto storico (occidentale) è venuto meno il “catecumenato sociale” (cf. J. Colomb) ovvero la trasmissione “spontanea” dei valori e simboli cristiani per cui la socializzazione (cultura di base) primaria avviene su basi e valori non evangelici anche se utilizzano simboli religiosi (utilizzati a scopo di senso o altro motivo). La riflessione pastorale di fronte a questo si domanda: come favorire in questo contesto l’integrazione tra fede e vita (cultura) e quindi la maturità di fede? Come deve rapportarsi agli altri “sistemi culturali” che fondano la cultura di base? A quali condizione avviene il processo di inculturazione?
L’intero processo si realizza completamente a tre livelli: incarnare il vangelo nelle diverse culture cioè: permettere al Vangelo di esprimersi attraverso di esse, o arrivare alla profondità di esse [inculturazione del vangelo]; evangelizzare le culture cioè: purificare, elevare e trasformare le culture perchè si arricchiscano del mistero della salvezza che avviene nella storia [evangelizzazione delle culture]; rileggere il Vangelo con le culture cioè: scoprire nuovi aspetti della profondità del mistero della rivelazione [acculturazione del vangelo].
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articolo L. Meddi, Cultura e catechesi: un rapporto naturale, in Currò S. (a cura di), Alterità e catechesi, Elledici, Torino 2003, 51-67.
Un linguaggio significativo: priorità per la Nuova Evangelizzazione
Nella azione evangelizzatrice c’è una espressione che ripetiamo spesso e che riguarda la necessità di annunciare. Citando san Paolo si dice: come potranno credere se non c’è chi annuncia? (Rom 10,14). Troppo spesso, però questa espressione viene intesa solo nel versante della comunicazione del messaggio e troppo poco nel versante della comunicazione cioè del modo di trasmettere. In questa prospettiva diventa sempre più importante riflettere sul fatto che per una comunicazione autentica ci deve essere la possibilità di comprensione tra le persone. Vediamo ogni giorno infatti quanto sia difficile entrare in relazione se non si possiede una lingua in comune e se le persone non hanno riferimenti di valore condivisi. Questo è il tema del linguaggio o della significatività dell’annuncio.
La missione a partire dall’altro. Indicazioni pastorali
Meddi L., Imparare a farsi stranieri. La missione a partire dall’altro. Indicazioni pastorali, in Aa.Vv., Vangelo e itineranza cristiana. Contributi della 7a Settimana Nazionale di Formazione e Spiritualità Missionaria. Assisi 27 agosto-1 settembre 2010, Missio, Roma 2010, 49-64
Imparare a farsi stranieri significa accettare la sfida di percorsi plurali, di incomprensioni, di necessità di avere una mappa dentro la quale muoversi, dentro la quale far interagire la missione.
Certamente, nell’affrontare questo tema, io ho molte precomprensioni, che non posso qui esplicitare. Teniamo presente che questo tema si può interpretare a partire da molti punti di vista: il concetto di missione, la pratica di missione, come leggiamo l’idea di salvezza, il contesto di servizio: se sto in un gruppo di animazione o sto direttamente in un luogo missionario o sto rievangelizzando in Italia.
Questo intervento è un contributo ad un tema che è ancora molto aperto. Alcune cose si sono fatte chiare, altre non lo sono, non lo saranno forse per ancora diversi decenni. Pian piano la cristianità, la Chiesa, la missione chiariranno il nuovo paradigma verso cui stiamo andando.
Mi è sembrato utile raggruppare le mie riflessioni attorno a quattro interessi: ho voluto chiarire il tema; ho voluto collocarlo all’interno dell’evoluzione che abbiamo negli ultimi cento/centocinquanta anni del modo di fare la missione; ho messo a tema alcuni aspetti del pellegrinaggio, del farsi straniero, dell’itineranza nella pratica della missione; e infine ho approfondito l’ultima parte del titolo: imparare a farsi stranieri.
Crisi della pastorale come crisi formativa\1
Più volte ci siamo posti il problema se la crisi della pastorale non fosse solo di natura comunicativa ma anche più profonda. Facendo una analisi di qualità della situazione la crisi si può identificare nel prodotto offerto (non) più adatto alle esigenze dei destinatari; oppure al marketing per cui il prodotto non appare per il valore intrinseco che possiede; oppure è una crisi di produzione per cui il prodotto originario viene realizzato secondo specifiche che lo snaturalizzato; oppure di costi di produzione per cui il prodotto, pur ripetuto valido, non può essere acquistato. Sicuramente la crisi attuale è trasversale e riguarda ciascuno di questi elementi
Si tratta di capire l’attuale valore del dispositivo formativo della comunità. La teologia missionaria ci afferma che quando una persona “mossa dallo Spirito” si sente attratta alla vita cristiana allora la comunità è abilitata a generare figli cioè discepoli in un preciso contesto per una precisa missione. Da questo punto di vista una analisi adeguata si deve interrogare proprio su questo aspetto: perché la mozione dello Spirito non produce cristiani e comunità adulte nella vita cristiana? Perché il processo di produzione (la formazione) nella comunità si è bloccato? Dove si pone il blocco?
Ritengo utile fare due riflessioni fondamentali.
La prima riflessione riguarda il rapporto religione e cultura nel nostro contesto. Come già affermato esso è inevitabile. Le Religioni affermano che il loro sapere deriva da una rivelazione per cui è la cultura che deve adattarsi e riferirsi ad esse. Le Scienze Umane (=SU) mettono in evidenza un altro aspetto. Le rivelazioni religiose rispondono in parte ai bisogni culturali dei diversi tempi. I principi fondativi possono avere anche una origine “trascendente” ma il loro rapporto con i gruppi sociali è storicizzato o adattato ai bisogni fondamentali dei una cultura. Se utilizziamo un concetto dinamico di Rivelazione questa affermazione non ci fa paura. Se non confondiamo l’azione rivelatrice dello Spirito di Dio con le interpretazioni progressive della verità che l’umanità e la chiesa riesce a fare, allora comprendiamo che le crisi culturali non sono ostacolo alla missione, ma il suo normale cammino. Alla luce dei principi fondativi narrati dentro le narrazioni raccolte nella Bibbia, la comunità cristiana può trarre con profitto cose nuove e cose antiche (Mt 13,52). Gesù stesso definisce la sua missione come ermeneutica della antica Legge (Mt 5,17).
Questa premessa mi porta a porre l’ipotesi se la crisi formativa della comunità non sia innanzitutto crisi della narrazione privilegiata nella modernità per veicolare l’interpretazione fondamentale della rivelazione. Essa è stata quella redentiva. Soprattutto dopo il concilio di Trento il mito fondatore (la esperienza fontale di Gesù di Nazaret) è stato veicolato con la narrazione che definiva come significato principale quello della risposta al bisogno antropologico di sentirsi perdonati dalla divinità.
Questa verità religiosa è collegata a diverse dimensioni umane che le SU hanno progressivamente sottolineato e scoperto. I gruppi sociali e le persone, cioè, univano a questo annuncio fondamentale dell’amore di Dio la speranza che anche le altre forme del potere si comportassero in modo analogo. Nel momento in cui i medesimi gruppi sociali (in Europa) hanno emancipato la società dalle forme di arbitrio politico, lo schema interpretativo della religione ha perso il suo valore sociale; è stato marginalizzato dalla cultura e lasciato alla libera scelta personale. Questo non significa che non è vero, ma che non serve più ad alcuni aspetti della cultura.
Il cristianesimo sarebbe all’esaurimento del suo ruolo sociale solo se possedesse questa sola interpretazione (narrazione) del suo racconto fontale. Ma non è così. Gli studiosi ci offrono la ricchezza delle interpretazioni e proposte del NT.
Dal punto di vista pedagogico questo significherebbe che, se questa ricostruzione ha una qualche validità, è allora comprensibile che anche le mediazioni pedagogiche (rito, dottrina, simboli, totem, calendario) soffrono della stessa crisi culturale. Esse sono improduttive perché “dissociate” dalla struttura culturale. Il ripotenziamento pedagogico del cristianesimo sarebbe allora collegato con la decisione pastorale di rivedere i grandi racconti o di renderle plurali. Non tanto nel rafforzamento affettivo del dispositivo precedente, ma nel suo ampliamento. Oltre che questione di relazione generativa si tratterebbe di verificare se gli adulti nella fede appaiono “significativi” per il bisogno religioso e culturale della NG.
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